Breve storia della scuola italiana

  • Posted on: 4 Aprile 2013
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L’inizio della storia della Scuola Elementare Italiana si può far risalire al 1859, anno in cui  il ministro della Pubblica Istruzione del Regno di Sardegna, Gabrio Casati, presentò e fece approvare una legge: il regio decreto legislativo 13 novembre 1859, n. 3725 del Regno di Sardegna, noto come “legge Casati”. Lo scopo principale della legge Casati era che i bambini dovevano saper “…leggere, scrivere e far di conto…” e la stessa legge sanciva l’obbligatorietà e la gratuità dell’istruzione elementare per il corso inferiore, impartita dallo stato per mezzo dei comuni, ai quali spettava anche il compito di assumere i maestri.

Egli progettò una scuola elementare divisa in due bienni  e un successivo percorso formativo che si divaricava in formazione tecnica e formazione ginnasiale, quest’ultima solo a pagamento. I due bienni (inferiore e superiore) furono fatti per rispondere alle esigenze di uno stato laico moderno, quale voleva essere il Piemonte, che ambiva a togliere alla Chiesa il suo secolare predominio nel campo dell’educazione.

Non bisogna dimenticare infatti che tradizionalmente in tutta Italia l’istruzione era impartita, sia al livello elementare sia a quello superiore, da istituti ecclesiastici, spesso controllati dai Gesuiti, e che i preti esercitavano un controllo e potere tale che addirittura alcuni erano nominati anche Ispettori Scolastici.

L’istruzione elementare era a carico dei comuni, ma il secondo biennio era istituito solo nei comuni con più di quattromila abitanti o che avessero nel loro territorio un istituto secondario. I comuni dovevano quindi finanziare le proprie scuole e questo costituì un punto debole della “legge Casati”, perché i comuni con minori risorse o quelli delle aree più disagiate (caratteristiche spesso coincidenti) avevano difficoltà ad assumere per la scuola elementare maestri sufficientemente qualificati.

Ciò incentivò così l’istruzione privata da parte delle famiglie più ricche  che si affidarono spesso ad un precettore domestico, o a istituti privati. Lontana dal divenire veramente “pubblica” la scuola italiana non riusciva quindi neanche a divenire “d’obbligo” (la stessa legge Casati non prevedeva sanzioni per i genitori che non mandavano i figli a scuola) e quindi molte famiglie preferivano tenere i bambini a casa per i lavori dei campi, fenomeno questo che riscontriamo, anche se in misura minore negli anni 50/60 del secondo dopoguerra.

L’analfabetismo alla fine dell’800 riguardava il 74% degli uomini e l’84% delle donne.

Sulla scuola elementare si concentrò però, con speranze eccessive, una grande aspettativa sociale e politica: si voleva plasmare in senso unitario e nazionale la coscienza del popolo allo scopo di unificare una nazione nata dalla somma di stati che per secoli avevano vissuto separati. Se la politica aveva creato lo stato italiano, la scuola doveva crearne lo spirito, quasi rispondendo al celebre aforisma attribuito a Massimo D’Azeglio: “L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani!”.

Nel 1877 fu ministro della Pubblica Istruzione del Governo Depretis l’ex rettore dell’Università di Torino, Michele Coppino.  Durante il suo mandato egli portò a tre gli anni di obbligatorietà per quanto riguarda la scuola elementare inferiore, introducendo anche norme sanzionatorie per i genitori che non rispettassero questa riforma. Tale obbligatorietà salì poi fino al dodicesimo anno d’età dell’allievo con la legge Orlando del 1904. Siamo a inizio secolo e la discussione sul tema della scuola è molto accesa. Infatti appena sette anni dopo la legge Orlando (1911) viene promulgata la legge Daneo-Credaro che definì la scuola elementare come una scuola di tipo statale e i maestri diventarono quindi impiegati dello Stato. Tale trasformazione mirava ad un maggior controllo sulla frequenza degli scolari, e ad una più efficace lotta all’analfabetismo , puntando anche all’unificazione del sistema scolastico nazionale, disattesa quest’ultima a causa dell’arretratezza sociale ed economica di molte zone del sud che mettevano ancora più in evidenza il forte divario esistente con il nord.

Una delle svolte decisive nella storia della scuola italiana però si verificò nel 1923 con la riforma Gentile,  definita da Mussolini “la più fascista delle riforme”:  essa fu un insieme di decreti emanati senza discussione parlamentare che rimase sostanzialmente in vigore inalterata anche dopo l’avvento della Repubblica fino a quando il Parlamento italiano nel 1962 diede vita alla scuola media unificata. La scuola elementare con la riforma Gentile assunse una struttura più autoritaria e gerarchizzata. I programmi di studio per le scuole elementari, di chiara ispirazione idealista, sono redatti dal pedagogista catanese Giuseppe Lombardo Radice, Direttore Generale dell’istruzione elementare. La religione cattolica venne posta come base dell’educazione e moralità del fanciullo che attraverso essa doveva saper essere da esempio alle generazioni future.

Al maestro venne concesso di usare tutti i mezzi che riteneva più opportuni per l’insegnamento in relazione alla cultura e alla  tradizione popolare del luogo in cui si trovava ad insegnare. Egli doveva sapere accostare “il sapere del libro al sapere del popolo” anche attraverso l’uso del dialetto. Il maestro doveva essere non solo il punto di riferimento per i suoi allievi e modello a cui essi dovevano ispirarsi ma doveva anche rappresentare il centro di tutta la cultura del paese, ragion per cui viene stabilito con la circolare n°49 del 19 Aprile 1923 l”Obbligo di residenza” per i maestri nel comune della loro scuola.

Altro punto saliente della riforma fu l’innalzamento dell’obbligo scolastico sino al quattordicesimo anno di età. Dopo i primi cinque anni di scuola elementare uguali per tutti, l’alunno doveva scegliere tra liceo scientifico, ginnasio e scuola complementare per l’avviamento al lavoro. Solo la scuola media consente l’accesso ai licei e a sua volta solo il liceo classico permette l’iscrizione a tutte le facoltà universitarie. Inoltre furono disciplinati i vari tipi di istituzioni scolastiche, statali, private e parificate e fu creato l’istituto magistrale per la formazione dei futuri insegnanti elementari. Una grande innovazione si ebbe con l’istituzione di scuole speciali per gli alunni portatori di handicap, anche se già nell’800 si era fatto qualcosa di simile e l’apprendimento da parte degli alunni del senso civico e della correttezza nei confronti del prossimo. Era compito dei maestri far comprendere agli alunni il rispetto e la tutela della natura e verso gli animali, nei confronti dei quali spesso veniva usata violenza da parte dei piccoli.

Le conseguenze che le vicende della guerra 1940-45 portarono nel campo scolastico sono facilmente intuibili: fabbricati distrutti, occupati da sfollati, ridotti a dormitori o a cucine popolari, insegnanti dispersi, disorganizzati, studenti disorientati. Su tutto questo gravava inoltre un governo inefficiente e per un certo periodo messo in sottordine dall’esercito di liberazione

Torna la libertà per il docente per la scelta dei libri di testo e nel 1947 sono ricostituiti i Patronati scolastici che saranno attivi fino al 1977. Sul momento tuttavia si dovettero concentrare gli sforzi soprattutto nella ricostruzione, che si presentava più difficile per la presenza di un organismo straniero incapace di valutare in senso realistico la situazione italiana.

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